sabato 25 aprile 2009

I Ghidini


Verso la metà degli anni Cinquanta, quando Vanni cominciò a frequentare i giardini Ghidini di Corso Gabetti, anche noi abbandonammo il nostro ritrovo di largo Moncalvo per approdare ai giardini Ghidini. Giorgio, Giancarlo, Gino, io e qualche volta anche Adolfo prendemmo l’abitudine di trovarci sulle panchine del giardino dove ci unimmo ad altri ragazzi del borgo, naif come noi: Adriano (Saruja), Tale (l’Americano), Dino (il Corvo), Carlin (Mus), Peru, Bob, Ciano, suo fratello Guido e Aldo (Barulin, il mio compagno di banco delle elementari), oltre a Paolo (Bulugnin, diventato poi l’ultimo e celebre fabbro di Borgo Po) ed altri di cui ho dimenticato i nomi ma non i volti. Anche qualche amica frequentava con noi i giardini: ricordo Enza, Rosanna, Luciana, Franca e Carla.
Come ritrovo invernale, ci insediammo al “Piollino”, bar di Via Moncalvo angolo Via Santorre di Santarosa, ora oculario, quasi di fronte alle suore tedesche (le uniche che in tempo di guerra ebbero il privilegio di conservare intatta la cancellata in ferro, altrimenti requisita per essere riciclata in cannoni per la patria). Più avanti, per incompatibilità con il figlio del proprietario del Piollino, decidemmo di trasferirci tutti quanti al Bar Natale di Piazza Borromini, proprio di fronte alle famose cantine Risso, dove si andava a mangiare i pesci del Po.
Divenne un nostro grande amico Adriano, che lavorava nell’azienda paterna con suo fratello e sua sorella, nel settore dei recuperi metallici, con la sede in Via Sciolze (l’azienda esiste tuttora ed è stata trasformata da Adriano e i suoi in falegnameria e fai-da-te).
Adriano, che fu uno dei primi a prendere la patente, dopo la vespa si comperò la Fiat 500 C.
Ricordo ancora un viaggio in camion con lui, sino a Venezia e ritorno, con sosta all’autogrill Pavesi di Novara, che credo essere stato il primo grill costruito in Italia.
Ci si fermava a bere il cappuccino spruzzato al cioccolato che era una novità per quei tempi.
La felicità era raggiunta quando suo fratello gli prestava la Fiat 1400 che in quei tempi era una vettura di assoluto prestigio. Ci sentivamo veramente dei signori quando, sprofondati nei sedili dell’auto, andavamo in giro il più delle volte senza una meta precisa.
Con noi c’era sempre anche Giancarlo Bertolero, già nostro compagno delle elementari, figlio unico, appassionato di motori, che frequentò la scuola per motoristi Biraghi di Corso Novara.
Diplomatosi, andò ad aiutare suo padre che aveva iniziato una fiorente attività nel settore degli ammortizzatori per auto, la BETOR.
Con Giancarlo B. conobbi il mondo delle risaie, perché la nonna paterna abitava in un paesino del vercellese di nome Ronsecco e che noi, nel nostro girovagare con la moto andavamo ogni tanto a trovare anche per conoscere le mondine del luogo, che erano quasi tutte della nostra età.
Ci trovavamo a casa di Giancarlo a giocare a carte: Adriano, Giorgio, Giancarlo Chiapello, io, lui e la cugina dell’ospite, Marisa.
La mattina del giorno dopo l’Epifania del 1959 mi trovavo sul filobus che da Piazza Statuto portava a Rivoli per recarmi al lavoro presso la sede staccata della Westinghouse di Regina Margherita, quando buttai l’occhio su “La Stampa” del vicino di viaggio. Rimasi di sasso vedendo la foto di un’auto distrutta con la didascalia “l’auto del Bertolero”. Scesi e andai subito a comprarmi il giornale e appresi così che il nostro amico Giancarlo a soli 20 anni, la sera dell’Epifania si era schiantato contro un palo a bordo della Lancia Appia di suo papà sulla tangenziale di Corso Polonia.
Gli era toccato il triste record di essere il primo morto sulla tangenziale che era stata appena costruita in vista delle celebrazioni di Italia ’61.
Quella morte ci colpì molto, ricordo ancora il funerale, dove noi amici portammo il feretro a turno sulle spalle e il dolore inconsolabile e tremendo dei suoi genitori.
Mi fece molto male apprendere in seguito che gente accorsa al momento dell’incidente dalla bidonville esistente allora in Corso Polonia si era appropriata del suo cappotto e del suo orologio.
La nostra Torino stava già cambiando e purtroppo non in meglio, anche se il peggio del degrado morale doveva ancora arrivare.

La maraja di Borgo Po

Una ventina di anni orsono, tornando in treno da Milano, incont

Didascalia foto: a Superga, 1942, Maresa, Vanni e Franco, i tre più brutti ceffi della Maraia

Una ventina di anni orsono, tornando in treno da Milano, incont

Una ventina di anni orsono, tornando in treno da Milano, incontrai una signora, non più giovanissima, ma ancora bella e con un portamento distinto. Vedendola pensai subito ad una donna di classe. Parlammo del più e del meno, come si fa solitamente sui treni, tra persone che non si conoscono, quando all’altezza di Santhià ci accorgemmo che incominciava a nevicare.

La signora era preoccupata perché da Porta Susa, dove sarebbe scesa, doveva poi recarsi fino a Via Villa della Regina in Borgo Po, dove abitava.

Le chiesi: “Ma lei è di Borgo Po?”. Alla risposta affermativa le dissi che anch’io ero nato lì, anche se ora purtroppo non ci abitavo più. Lì, in Via Martiri 27.

La signora si aprì in un largo sorriso e disse che anche lei era di Via Martiri e che era la figlia di un noto medico e mi chiese chi ero. Quando mi presentai “Franco Mantovani. Un amico di Vanni Petrini… e anche di Giancarlo Chiapello”.

La signora, piacevolmente sorpresa, esclamò: “Ma era uno della Maraia!?”.

Già….la Maraia…che ricordi !

Un giorno - avevo forse sei o sette anni - Vanni mi chiese se volessi far parte con lui e Giancarlo della costituenda Maraia (una specie di banda di bambini uniti in un mutuo soccorso). Mi sentii molto onorato di far parte del gruppo, che prendeva questo nome un po’ esotico, anche se non saprò mai perché fu scelto.

In effetti la parola, “Maraia”, assumeva un significato negativo di zingaresco, poco raccomandabile, che probabilmente deriva dal poco esotico “marmaglia”. Ci servì però per diventare uniti e inseparabili, come i moschettieri, “tutti per uno, uno per tutti”, in un periodo in cui tra contrade esisteva una sorta di rivalità.

Salutai a malincuore la signora a Porta Susa e proseguii il viaggio verso Porta Nuova, ma la mia mente vagava: quando negli anni Quaranta, in estate la Maraia faceva merenda andando a “maroda” nel campo di Leo, che si estendeva da Villa Genero a Corso Alberto Picco sul fianco della Villa della Regina .

Pesche, ciliegie e pere, che rappresentavano la nostra colazione, dovevano essere consumate sul posto e mai portate via. Questa regola non dichiarata faceva sì che ci sembrasse di non rubare, ma di soddisfare un’esigenza senza crearci dei rimorsi.

La “maroda” forse oggi sarebbe chiamata “esproprio proletario”.

Qualche villa aveva degli alberi i cui rami fuoriuscivano dai muri di recinzione, con invitanti frutti penzolanti. Vanni alla velocità della luce si arrampicava in alto ed era sempre il primo. La collina la sentivamo nostra, salivamo a piedi, su da Via Cardinal Maurizio, passando davanti alla famigerata caserma di via Asti, già sede della Gestapo, e a quel punto avevamo due possibilità: o deviare a sinistra in Via Luisa del Carretto per poi salire su per la montagnola e sbucare in Corso Alberto Picco o proseguire sul Corso Quintino Sella, su fino al Capolinea del tram 20, all’ingresso del parco della Villa della Regina e poi ancora salire verso Villa Genero, o alla curva in mattoni prima del San Camillo inoltrarsi verso il Castello del Diavolo.

Questo nome, da solo, ci intimoriva ma ci attirava terribilmente.

La leggenda vuole che questo singolare edificio che non assomiglia per niente ad un castello, di giorno venisse costruito dai muratori e di notte il Diavolo si peritasse di abbatterlo. Probabilmente già allora esisteva qualche interesse edilizio non ben chiaro.

Qualche volta ci spingevamo fino alla colonia “Tre Gennaio” che ora si chiama Villa Gualino.

La moda dell’ebbrezza della velocità aveva contagiato anche noi, che ci eravamo costruiti dei carrettini con degli assi, dei manici di scopa e dei cuscinetti a sfera, che venivano chiamati i “carugiu” e partendo dall’Eremo scendevamo giù a discreta velocità fino davanti a casa nostra, facendo, ahimè, un baccano non indifferente.

Non potevamo però scendere da quel pezzo di Via Cardinal Maurizio sito tra Via Martiri e Corso Casale perché dall’istituto delle suore cappuccine balzava fuori un inviperito vecchio prete che ci redarguiva severamente in quanto, a suo dire, disturbavamo la quiete della clausura.

In Via Cardinal Maurizio, angolo Via Martiri, di fronte alla casa di Adolfo, abita una famiglia benestante di cui alcuni componenti erano all’incirca nostri coetanei: Franco, Mario e la sorella Dada.

La loro casa ha un grosso giardino che a quei tempi diventò la nostra caserma.

Mario ne era il colonnello, Franco il capitano, Giancarlo l’ufficiale di picchetto (con tanto di fascia azzurra) e io e Vanni, ahimè, soldati scelti.

Eravamo ben armati, chi con Flobert e chi addirittura con residuati bellici che per fortuna non funzionavano più.

La banda si era ingrandita, ne faceva parte, tra gli altri, anche Giovanni detto Giuanas.

Il padre di Giuanas lo ricordo molto severo, di professione faceva il custode, nonché uomo di fiducia di Pietro Viola, quello della cioccolata, nello stabilimento dell’isolato che va da Piazza Moncalvo a Via Segurana. Oggi al suo posto c’è un grosso condominio, per far posto al quale è stata abbattuta anche la villetta di piazza Moncalvo dove abitava il tenore Mazzarino.

Esteticamente quello stabilimento non era molto bello, però da esso emanava un profumo di cioccolata che si spandeva in tutto il Borgo fin quasi all’istituto Figlie dei Militari.

Il detto “far la figura da cioccolataio” pare che derivi dal fatto che Pietro Viola, il fondatore, sia andato ad un ricevimento con una carrozza che aveva più cavalli di quella del Re.

Giuanas fece una discreta carriera da calciatore iniziando nei ragazzi della Juventus.

Mario, purtroppo non è più con noi, ma a suo tempo divenne un valente pittore, affermato e quotato, in particolare nel milanese, dove si trasferì per parecchi anni.

Ai nostri giochi partecipava anche saltuariamente Carlo, figlio del maestro Calzia, compositore con Kramer di parecchie canzoni di successo. Mi ricordo di “Americano non posso cantare”.

Carlo era un ottimo sportivo e divenne anche campione italiano di spada o di sciabola, non ricordo bene.

Un altro componente della banda fu sicuramente Giorgio Zai, che abitava nella casa di Franco e Mario, e il cui padre aveva un’officina meccanica in Via Luigi Ornato, vicino alla locanda. Costruiva per il figlio dei bellissimi e funzionali “paligia” in ferro, per giocare alle figurine.

Più tardi anche Armandino si unì alla nostra banda; suo padre, una persona molto intraprendente, aveva iniziato un’attività allora del tutto nuova, e cioè la produzione di penne a sfera, aprendo un’officina in Via Cossilla, al Borgo del Fumo, ora Vanchiglietta.

Il teatro di operazioni della Maraia andava grosso modo dall’altezza della tintoria Guazzo, in via Martiri (in quella casa dove pare avesse abitato l’attore che impersonava Maciste), fino a via Luigi Ornato, più o meno all’altezza della latteria Borgo Po dei signori Lavagno (adesso Libreria Borgo Po) e da Corso Casale su fino ai giardinetti di Corso Quintino Sella.

La nostra parola d’ordine, probabilmente ispirata da qualche animo nostalgico, era “Vincere”.


Un giorno arrivò in bicicletta un ragazzino che poi divenne uno dei nostri, un caro amico che purtroppo non c’è più. Riccardo era il suo nome e aveva proprio un cuor di leone. Si fermò a pochi passi da noi ad osservarci e noi, dopo avergli chiesto chi era, legammo l’ “intruso” al cancello di Via Martiri di fronte a casa mia e lo lasciammo legato quasi per un’ora. Poi, sconfitti dalla sua indifferenza, lo slegammo e lo ritenemmo degno della Maraia.

Uscendo dalla stazione di Porta Nuova e attraversando Via Sacchi di corsa per andare sotto i portici a ripararmi dalla neve, vidi con il suo inconfondibile passo venirmi incontro proprio Riccardo. Lo abbracciai, erano anni che non lo vedevo, e sentii il bisogno quasi per scusarmi di rammentare quell’episodio della legatura. Ridendo mi disse che malgrado tutto, quanto accadutogli appena arrivato ad abitare in Piazza Moncalvo, quell’episodio rappresentava anche per lui un caro ricordo.